Ricordo di un’epidemia lontana a Milano…La peste e il Lazzaretto
La peste che aveva colpito Milano tra l’inizio del 1300 e la metà del 1400, cessò in età sforzesca di essere considerata un evento soprannaturale e un castigo divino.
Si comprese che la peste veniva diffusa dal contagio e si studiarono le prime misure preventive, tali da evitare il diffondersi dell’epidemia.
Si iniziarono ad isolare i malati e i sospetti e s’incenerivano le cose infette.
Nel 1488, alle prime avvisaglie di una nuova epidemia, si diede l’avvio alla costruzione di una grandiosa opera voluta da Lodovico Il Moro, il lazzaretto.
Fu incaricato l’ingegnere ducale Lazzaro Palazzi (presente già nel cantiere dell’Ospedale Maggiore) di misurare il terreno prescelto, fuori città verso oriente.
Palazzi, probabile autore del progetto, diresse i lavori fino alla sua morte nel 1507. Successori ne furono l’ingegnere Bartolomeo Cozzi (fino al 1509) e poi nel 1511 Amadeo.
Cos’era il Lazzaretto?
Il Lazzaretto milanese, unanimemente ammirato e riconosciuto come modello da tutte le altre città, consisteva in un vastissimo recinto quadrato lungo 378 metri e largo 370, con un unico ingresso sorvegliato dai soldati e con attorno un fossato pieno d’acqua (prelevata dal Redefossi), ad accentuarne l’isolamento e il carattere di cittadella chiusa e separata dal mondo esterno.
Lungo il perimetro si contavano 288 stanze collegate fra loro da un gigantesco porticato con ben 385 colonne di marmo di Baveno. Al centro dell’enorme spiazzo, una cappella visibile da tutte le stanze. 280 camere erano destinate agli infermi, 4 stanze più grandi, agli angoli, destinate ai medici ed ai barbieri ed altre 4, ai due ingressi, destinate alla portineria ed ai servizi.
L’arredo delle celle era spartano: in ogni stanza c’erano un camino per il riscaldamento e una nicchia, dove poter riporre oggetti e abiti. Il letto, era una sorta di barella, che rimaneva sollevato da terra, un po’ di paglia a mo’ di materasso, rendeva più confortevole la degenza; il pavimento in cotto, leggermente inclinato, permetteva il deflusso dell’acqua dopo il lavaggio, verso i fori del muro esterno, direttamente nel fossato che circondava tutta la struttura.
L’intero complesso aveva due soli portoni: uno di accesso alla struttura dalla parte di via Vittorio Veneto, presidiato dai soldati, e l’altro, di fronte (dall’altra parte dell’immenso cortile), di accesso diretto al vicino camposanto. Così come strutturato, sembrava .. o meglio era, l’anticamera della morte, perchè durante i periodi della peste, con le conoscenze mediche di allora, erano davvero pochissimi i fortunati che riuscivano a salvare la pelle.
Al centro del quadrilatero sorgeva una cappella quadrata dedicata a Santa Maria della Sanità. La chiesetta consisteva in una semplice cupola sorretta da colonne, con in mezzo un altare, aperta ai quattro i lati, in modo che fosse possibile assistere alle funzioni, da ogni punto del Lazzaretto, gli appestati potevano assistere alla messa restando chiusi nella loro cella.
Solo settant’anni dopo, a seguito della grande epidemia di peste del 1576, l’arcivescovo Carlo Borromeo diede incarico al proprio architetto di fiducia, Pellegrino Tibaldi, detto il Pellegrini, di costruire un nuovo edificio di culto, più ampio, al posto del precedente. Venne così costruita una grande chiesetta di forma ottagonale che prese il nome di San Carlo al Lazzaretto.
Chiesa di San Carlo al Lazzeretto
Manzoni e il Lazzaretto:
Nel cap XXXV de i Promessi Sposi, il lazzaretto diventa autentico spazio narrativo nel romanzo, poiché Renzo , da poco giunto a Milano in cerca di Lucia e dopo aver appreso che la giovane è ricoverata tra gli appestati in quella struttura, riesce ad arrivarvi in modo fortunoso in seguito al tentativo di linciaggio subìto dalla folla che lo crede un untore, a bordo del carro da cui scende nei pressi del convento dei cappuccini di Porta Orientale (lo stesso già visto nel cap XI). Il giovane si avvicina al lato meridionale del recinto esterno e vi vede molti appestati, alcuni in preda al delirio e altri privi di forze, oltre a un “frenetico” in groppa a un cavallo che sprona a sangue ed è inseguito dai monatti. Renzo attraversa l’ingresso e si addentra nel lazzaretto:
“Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e più speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e curati a spese del pubblico; e così vien risoluto, contro il parere della Sanità, la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo”.
Ecco come Manzoni introduce nel suo romanzo più celebre il lazzaretto milanese, luogo al di fuori delle mura dove venivano trasportati i malati di peste.
Manzoni ci descrive il lazzaretto come un recinto popolato da sedicimila appestati, uno “spazio tutt’ingombro” pieno di baracche, capanne e carri, dove la gente si lamentava a gran voce e moriva fra atroci sofferenze.
Il Lazzaretto oggi:
Purtroppo, oggi del lazzaretto è rimasto davvero poco. Dopo la peste del 1629-1630 infatti, il Lazzaretto venne convertito ad altri usi, in particolar modo militari, finché non venne demolito nella seconda metà del XIX secolo a causa dell’aumento della richiesta di lotti edificabili in città. L’unica parte ancora visibile è un gruppo di cellette rimasto integro lungo la via San Gregorio e la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, in viale Tunisia. Andateci e immaginatevi Renzo che incontra Don Rodrigo moribondo o, se avete voglia di un lieto fine, il ricongiungimento di Lucia e Renzo proprio all’interno di queste mura.
Restano solo un breve tratto di muro con sei finestre (e le relative arcate del portico) e alcuni rilievi.
Porzione superstite del Lazzaretto in Via San Gregorio, 5.